domenica 1 maggio 2016

SCIAMANI

"Io alla pellicola voglio bene; siamo stati felici insieme; abbiamo condiviso avventure, emozioni, fatiche e resta nella mia memoria con piacere. Ma non ho nessuna nostalgia e ormai tra noi è finita."








Questo dico spesso, quando mi trovo a parlare del passaggio dall'analogico al digitale. E lo penso veramente. Il mondo va avanti; cambiano gli strumenti, i materiali, i supporti, ma la fotografia resta la stessa: uno strumento di comunicazione attraverso lo sguardo.

È dal 2006 che non tocco una pellicola.

C'è però un aspetto di quel mondo che ultimamente mi richiama a una certa nostalgia: il lato sciamanico di quella ritualità. Mi riferisco alla pratica quotidiana del banco ottico, degli chassis, del panno nero, delle pose così lunghe che nel frattempo si poteva fare una partita a briscola.




Cioè: noi si sembrava davvero degli sciamani, quasi degli stregoni, depositari di una magia che solo noi conoscevamo. Noi, solo noi, si andava sotto quel panno nero, e guardavamo nella penombra del vetro smerigliato, dove l'immagine era a gambe all'aria, buia, con la destra e la sinistra invertite, spostando continuamente la testa tutto intorno perché nell'insieme era impossibile vedere; poi appoggiavamo il lentino sul vetro, per guardare cose invisibili a tutti gli altri, controllare il fuoco, scrutare il dettaglio. 

E cercavamo di immaginarci l'immagine finale, nella testa, perché fino a quel momento tutto era soltanto un'ipotesi evanescente su un vetro grigiastro.

Se qualcuno veniva sotto il panno nero era perché noi glielo concedevamo e, comunque, lui ne usciva ancora più convinto che fossimo dotati di poteri speciali ( "ma come fai a guardare lì dentro e capirci qualcosa?" ).

E infine, quando la magia era pronta per essere operata, infilavamo lo chassis, chiudevamo otturatore e diaframma, toglievamo il volet, pigiavamo sul flessibile e tac! 1 secondo, 10 secondi, 1 minuto, 10 minuti di posa... mamma mia! Credo di ever fatto pose anche di venti minuti, mezz'ora, tre quarti d'ora, per scatti a f/64, con pellicole 50 ISO 20x25, il 360 mm e magari il polarizzatore montato che si mangiava quasi 2 stop. Poi andavi a sviluppare "il pezzo" e incrociavi le dita.











Perché la fotocamera a banco ottico, di grande formato, a lastre, è ancora nella sostanza quella che era nel passato remoto della fotografia. Da qualche parte ho letto di un ragazzo che davanti a un banco ottico chiedeva: "come si accende?". Sembrerà strano, ma il banco di dieci anni fa non aveva le pile o un tasto per accenderlo e si trattava ancora, semplificando, di una scatola con un buco e un posto dove mettere la pellicola. E basta.







Sembrano cose d'altri tempi e invece era la normalità quotidiana di solo dieci, quindici anni fa.

Veramente una fatica e una macchinosità che ora sembrano preistoria. Non mi dispiace di essere passato a strumenti infinitamente più comodi e soprattutto capaci di garantirmi maggiore controllo sul risultato finale. Però mi accorgo che quella ritualità un po' mi manca, così come mi manca quella macchinosità e quei tempi di lavorazione tanto dilatati, che già da soli ti obbligavano al ragionamento e al rigore. 

Non che io abbia perso l'abitudine a ragionare prima dello scatto; anni e anni di quella prassi ti restano dentro come un vizio. Però ora la foto è lì, dopo un attimo, sull'LCD della fotocamera. 

La foto, non un'ipotesi. 

E un attimo dopo è sul desktop del cliente che, da un'altra parte del mondo, magari nel mezzo di una riunione o di una telefonata, la giudica e stabilisce se va bene o è da correggere, in un vortice sempre più frenetico che a volte stordisce e sfianca.

E poi, 
come dicevo, 
era un imbroglio, lo so, 

ma agli occhi del cliente sembravamo davvero degli sciamani e questo valeva, già da solo, qualche punto e qualche euro in più per il nostro lavoro. 

Concedetemi questa banale nostalgia. 




Ansel Adams