martedì 29 novembre 2011

Professione fotografo - Tomesani Film Corporation


Di Roberto Tomesani, al di là della stima che ho per il suo lavoro al servizio della professione fotografica, conservo un sentimento di riconoscenza per un suo piccolo gesto, di tanti anni fa, che lui avrà certo scordato. 

Ero in un momento difficile, con il fiato di un cliente sul collo: questo, in malafede, stava cercando di fare il furbo per non pagarmi un grosso lavoro. Non la faccio lunga: dovevo consegnare assolutamente il lavoro, finito e post-prodotto, la mattina del giorno seguente; in anticipo rispetto agli accordi così da non fornire al cliente un pretesto cui aggrapparsi per eludere i suoi impegni. Insomma: notte in bianco a lavorare, fino a mattina, per terminare il lavoro. Alle 2, le 3 di notte, non ricordo esattamente, mi telefona Roberto: "come và? tutto bene? allora ce la fai? dacci dentro, che poi ti fai una dormita". L'avevo chiamato nel pomeriggio per avere suoi consigli e a notte fonda il Roberto mi chiama per darmi una parola di incoraggiamento. Grazie. Un piccolo gesto, banale finché volete e non dovuto; ma, in un momento di difficoltà e di sconforto, più utile e gradito di mille consulenze. Questo per raccontare la persona. Per ciò che riguarda il professionista, invece, devo dire che da sempre Roberto, e la sua Tau Visual, sono l'unico riferimento concreto per quanto riguarda la professione fotografica in Italia; ma su questo non  è necessario mi dilunghi perché nel settore è sufficientemente conosciuto da tutti.


Questo post per condividere un paio di filmatini di Roberto, sempre efficace e immediato, riguardo alla fotografia professionale e ai suoi prezzi. Un tema pieno di malintesi che, ho l'impressione, molti fotografi hanno anche verso se stessi. Ci tengo a sottolineare che le cifre di cui parla Roberto nei video sono ai minimi sindacali, giocando al risparmio, perché un'attività fotografica articolata e funzionale ha costi ben più alti. Molto più alti. Ma pare che nemmeno queste spese minime siano contemplate dai clienti e, peggio ancora, dai fotografi stessi.








La crisi esiste per tutti e in ogni settore, ma ho l'impressione che a quella del nostro si aggiunga una sostanziale incapacità dei fotografi a essere imprenditori. Siamo tutti "appassionati" della fotografia, prima ancora che titolari d'azienda, e quindi fatichiamo a leggere il nostro lavoro attraverso l'ottica del profitto, come deve essere in qualsiasi attività che voglia stare in piedi e produrre reddito.
E' incredibile, ma è così.






I clienti ci considerano spesso dei giocherelloni che si fanno pagare caro e sono quasi convinti che noi ci si arricchisca alle loro spalle. Ma, quel che è peggio, sembra quasi che i fotografi stessi si sentano dei fortunati ai quali qualcuno paga il loro hobby. In realtà ci scontriamo ogni giorno con un mercato che sottovaluta il nostro lavoro e non ci riconosce il valore che potremmo meritare; e spesso lottiamo per far quadrare i bilanci e tenere in piedi le nostre attività. Ne soffrono i professionisti affermati, che per  l'esperienza e gli anni di fatica meriterebbero maggiore stima, fiducia e più adeguati compensi; ne pagano lo scotto i giovani fotografi che, per farsi strada, sono costretti spesso a lavorare gratis o per quattro euro pur di farsi vedere; con poche prospettive di consolidare la loro presenza sul mercato, strizzati finché serve e poi mollati quando incominciano, giustamente, a pretendere un trattamento semplicemente dignitoso. Certo, se a vent'anni ti propongono di pubblicare su una rivista di moda lo fai anche gratis; ti sembra anzi di toccare il cielo con un dito. Ma lo devi fare con lucidità e disincanto, sapendo che quello dev'essere soltanto un trampolino di lancio e un'esperienza, non una situazione stabile. Perché lavorando gratis, sottocosto o per due soldi, la tua impresa non si regge in piedi e il mercato, anche il tuo, va a puttane ( ...si può dire puttane? ).







Ancora più gravi e miopi sono le scelte di tanti professionisti di lunga data, disposti a svendere il proprio lavoro pur di non sentirsi inattivi. Per carità: quando uno è in difficoltà, per qualche momento, è legittimo che accetti anche cose che in condizioni normali non prenderebbe in considerazione. Ma sempre, SEMPRE, bisogna avere in testa il proposito che si tratti di un passaggio da cui rifuggire al più presto tornando, appena possibile, a regime. Altrimenti le nostre sono imprese destinate a morire. Da una parte il mondo delle professioni in senso ampio si è caratterizzato, a volte, per uno spirito corporativistico fuori misura che ha generato, in alcuni settori, caste inattaccabili; dall'altro, noi fotografi non siamo mai stati capaci nemmeno di guardarci negli occhi e dirci, tra noi, quali siano i limiti di dignità sotto i quali non scendere per sopravvivere e per non ucciderci l'un l'altro. Ci siamo sempre fatti, piuttosto, una continua guerra all'ultimo euro ( e anche di peggio ) pur di portare a casa il lavoro. Dovevamo sentirci ( anche ) colleghi per avere ( insieme ) più forza contrattuale sul mercato. Invece ci siamo sempre considerati ( soltanto ) concorrenti; quasi fossimo perennemente dentro un grande concorso nel quale conta edonisticamente prevalere nell'esserci, piuttosto che costruire insieme la credibilità e la solidità del mondo fotografico professionale sul mercato. Sto parlando naturalmente della categoria in generale perché poi ognuno ha la propria storia e il proprio modo di concepire il mercato e i valori professionali. 
In questo senso, credo che gli interventi sempre puntuali di Roberto Tomesani sull'argomento siano di grande aiuto, ma bisogna che noi tutti ci guardiamo negli occhi e impariamo a dirci, da colleghi, cosa è necessario fare affinché il mercato abbia stima di noi e ci riconosca un valore, se l'abbiamo. E bisogna che impariamo noi, prima degli altri, a fare i conti, perché il primo valore per un'attività imprenditoriale è avere il bilancio in attivo.


Per finire, ancora qualche interessante considerazione di Roberto sulla fotografia e i fotografi:






venerdì 18 novembre 2011

La Cultura del Ritratto




Questo post è rivolto soprattutto ai colleghi fotografi professionisti, ma io credo che possa interessare, per quanto riguarda l'aspetto culturale che sta dietro al fenomeno, anche a un pubblico più allargato.

Sono stato recentemente in Normandia a tenere un corso di due giorni sul Ritratto per il GNPP ( Groupement National de la  Photographie Professionelle ), l'associazione dei fotografi professionisti francesi. Sono arrivato la mattina del sabato, presto, al piccolo aeroporto di Caen. Ho passato la giornata nel retrobottega dello studio di un fotografo ritrattista della zona, in attesa di essere portato nella location del seminario. Al di là del fatto che a stare dietro le quinte c'è sempre da imparare, ne sono uscito sorpreso e un po' stordito. 




Il telefono squilla in continuazione, e ogni cinque minuti si apre la porta dell'atelier e entra un cliente. In quanti studi fotografici italiani specializzati nella fotografia di ritratto succede la stessa cosa? Di più: quanti studi fotografici italiani possono sopravvivere di sola fotografia ritrattistica? L'amico francese fa soltanto ritratti: a bambini, donne incinte, ragazzi, adulti, anziani. Stampa su carte fine art, monta su materiali pregiati, incornicia in formati anche molto grandi, impagina in book curatissimi; mostra le stampe ai clienti in guanti bianchi di cotone; consegna in cartelline e scatole rigorosamente Acid Free. I clienti vanno da lui per farsi un piccolo ritratto e ne escono immancabilmente con tutto il servizio, pagando cifre notevoli. Ha clienti fissi che si fanno ritrarre in ogni occasione: la foto di famiglia ogni tanto, ma poi anche la gravidanza, il figlio neonato, il primo dentino, la prima camminata, il primo compleanno, il primo giorno di asilo, il primo giorno di scuola elementare; e poi il primo giorno delle scuole medie, i diciott'anni, la laurea, ecc.. Il loro figlio ritorna dal fotografo a farsi il book insieme alla prima fidanzata e poi con la seconda e poi con la terza… i genitori regalano il book da aspirante modella alla figlia; regalano il servizio fotografico ai nonni per Natale; insomma, ogni occasione è buona per farsi un ritratto da un fotografo capace. E sto parlando di uno studio della provincia francese, non di Parigi o Lione.

Forse dobbiamo fare qualcosa per promuovere il ritratto in Italia. La Cultura del Ritratto.








Perché da noi non c'è questa cultura. 
Forse non c'è mai stata o, più probabilmente, quando era il momento di promuoverla abbiamo fatto, come categoria, tutto il possibile per affossarla. Tutti noi abbiamo nei cassetti almeno una fotografia dei nostri nonni. Una volta nella vita forse, ma 100 anni fa la gente si faceva ritrarre dal fotografo; quasi nessuno possedeva una fotocamera, e quindi era inevitabile rivolgersi a un professionista per immortalare la propria immagine. Poi, è vero, è arrivata la fotografia per tutti, la Kodak Instamatic, la Polaroid, le compatte automatiche; la possibilità, insomma, di ritrarsi da soli. 






Ma, mentre proprio in quel momento era necessario valorizzare il nostro lavoro, offrendo al cliente un prodotto di qualità che lui da solo non sarebbe mai stato in grado di realizzare, noi fotografi abbiamo abituato la gente a credere che farsi un ritratto dal fotografo significa entrare in un negozio dieci minuti, posare più o meno impacciati davanti a due torce con l'ombrellino, lasciare 30 euro e ritirare una foto stampata in automatico su cartaccia nel minilab e consegnata nella busta del prosciutto con stampato sopra il prezzo. Chiaro che sto parlando di una certa categoria di fotografi, dalla quale spesso i professionisti che si sentono più "fighi" e professionalmente elevati, tendono a distinguersi con un certo snobismo; ma la cultura ( o sottocultura ) del ritratto, riguarda tutti, fighi e meno fighi. 








Perché è fuori di dubbio che da noi il ritratto è quella roba lì, e con quel tipo di aspettativa si deve scontrare chiunque, anche chi lavora a alti livelli; nella testa della gente non ci sono, mediamente, aspettative più alte, purtroppo. Poi qualcuno ha la fortuna di avere di se degli ottimi ritratti, perché la sua professione lo porta magari sul set di un grande fotografo di moda; oppure perché la propria azienda chiama un buon ritrattista per creare l'immagine aziendale. Qualcuno, ancora, apprezza queste cose, e spende anche cifre notevoli per avere un ritratto di alta qualità, ma si tratta comunque di una piccolissima minoranza. Il ritratto di alta qualità si realizza soltanto per piccole nicchie legate all'editoria, all'imprenditoria, ecc. Non esiste un'abitudine diffusa. Il fotografo ritrattista, in altre epoche e in altri paesi, ha una dignità alta anche se non vive di pubblicità, moda, editoria. Da noi no; peccato. Forse dobbiamo fare qualcosa per creare aspettative maggiori; forse, soprattutto, dobbiamo imparare a valorizzare di più quello che facciamo, perseguendo la qualità, l'eccellenza, il rigore, indipendentemente dal settore di mercato al quale ci rivolgiamo. In un'epoca di diffusione enorme della fotografia ( abbiamo ormai tutti in tasca una fotocamera, seppure nell'iphone, o nella compatta che portiamo al mare ), io credo che "la gente" sappia però distinguere tra una immagine presa, più o meno casualmente, durante la gita domenicale e l'immagine di un buon professionista inquadrata bene, illuminata con perizia, interpretata con capacità, stampata per bene su carta buona. Le foto della domenica finiscono spesso su un hard disk che prima o poi si quaglia, buttando al vento migliaia di fotografie e anni di memoria personale. Forse è il momento di promuovere il valore di un ritratto vero, che resta, che documenta la propria vita. Siamo in tempo di crisi, è vero, ma se ancora molti spendono delle cifre per le vacanze, per un telefono, per una tv lcd, che dopo qualche anno sono da buttare, perché non dovrebbe spendere qualcosa anche per un buon ritratto davvero professionale che diventi patrimonio della propria vita e della propria famiglia? Forse questa spesa non viene apprezzata perché noi professionisti non siamo capaci di cogliere noi stessi questo valore e trattarlo di conseguenza. Forse, e qui parlo ai colleghi che hanno negozio, vendita al pubblico, vetrina, bisogna che si ritorni a fare i fotografi invece che i commercianti; che si ridia dignità alla Fotografia mettendo in vetrina, invece che tazze e cuscini con su stampate le foto del pargolo, piuttosto che cornici e bomboniere, al posto di compattine e album colorati, mettendo in vetrina, dicevo, i propri lavori migliori.

Naturalmente dobbiamo anche saper fare bei ritratti, ma questo dovrebbe essere scontato per dei professionisti. Perché la Cultura del Ritratto l'hanno costruita i grandi della fotografia, ma anche tanti piccoli professionisti di provincia che, nel passato, con perizia, dedizione e fatica, ci hanno tramandato pezzi di storia e di cultura, attraverso i volti.


Ph.:  August Sander



Ph. Richard Avedon




Ph.:  Anonimo




martedì 15 novembre 2011

Tazebao






Una volta, nella Cina di Mao, c'erano i Dazibao; giornali murali, scritti a mano e appesi nelle piazze su grandi cartelloni; ognuno poteva scrivere e esporre in pubblico le proprie opinioni e i propri pensieri. Il mondo occidentale, nei movimenti del sessantotto, ne fece proprio il principio e i Tazebao riempirono le università. Se nel primo caso qualche maligno lascia sottintendere come, in realtà, si trattasse di un modo astuto per concedere al popolo una libertà fittizia, nel secondo fu certo un atto di assoluta libertà, voluta e conquistata; ma forse anche un modo, rassicurante e galvanizzante, per auto-convincersi della propria democraticità ( a volte altrettanto fittizia ).




Al di là di qualsiasi valutazione politica, nella quale non mi voglio addentrare, è curioso cogliere tante affinità con i moderni mezzi della rete; social network, blog, ecc.  Si è allargato il numero potenziale di fruitori della nostra comunicazione personale, aperti gli spazi, velocizzati i tempi, ma la sostanza resta la stessa: l'opportunità di scrivere su un muro ( virtuale soltanto nella materia, ma molto reale nelle possibilità di comunicazione ) quello che pensiamo, le nostre opinioni, ciò che amiamo, odiamo, desideriamo; anche, se proprio non abbiamo niente di meglio da fare e da dire nella vita, intrattenere la nostra cerchia di "ascoltatori" con news sul nostro mal di testa o le nostre palle girate.

In fondo… una grande illusione di democraticità del mezzo. A volte ci illudiamo di poter esaurire nella rete i nostri impulsi di giustizia, di rivendicazione dei diritti nostri e altrui, di espressione del nostro pensiero. Ci convinciamo che il mezzo stesso sia democratico di suo.




Ma lo strumento è uno strumento, e non possiamo scaricare su di esso i nostri limiti personali e collettivi. Un mezzo non è democratico o antidemocratico; non è culturalmente alto o al contrario zotico; non può, da solo, essere strumento di libertà o, per contro, di costrizione. Lo strumento, il mezzo di comunicazione, rappresenta e trasmette ciò che il comunicatore è lui stesso e lui stesso vuole ( anche il comunicatore privato della rete ).



La rete è stata strumento di rivolta nei recenti sollevamenti popolari del Nord-Africa, e ugualmente mezzo di assuefazione per tante persone che in facebook o sui blog, myspace, twitter, ecc., trovano occasione soltanto per raccontare agli amici del proprio mal di pancia o riciclare infinite citazioni che finiscono per esaurire definitivamente la loro forza.

Insomma, lo strumento è neutro; i contenuti no.

Per questo sono ancora in punta di piedi e timoroso nei confronti di questo blog; forse devo ancora capire chi io sono e cosa io voglio qui. 



 e ora che c'ho il blog...
che ci faccio?