mercoledì 24 ottobre 2012

Davide Cerati, fotografo per fototessere



Ok, ho deciso: non è il mio lavoro usuale, ma da domani incomincio a fare le fototessere.

Perché fare le fototessere non è per forza un lavoro di serie B per un fotografo. Lo diventa se si decide di farle con il culo. Se le foto per la patente si possono fare nelle macchinette a 3 euro, o gratis in casa con i software freeware che si trovano in rete, non è che un fotografo deve farle a 2,50 per restare competitivo, o per sentirsi ancora vivo. Perché, a quelle condizioni, sarà costretto a fare foto di merda. Per forza. 

Se i fotografi, invece che fare il loro lavoro di comunicatori, decidono di scendere su questo campo, al massacro, saranno sempre perdenti; e sono loro a decidere di esserlo. Ci sarà sempre qualcuno ( o qualche macchina, o qualche software, o qualche comune ) che sarà in grado di farlo a meno di loro o addirittura gratis; e nulla e nessuno potrà fargliene una colpa, a questi. 


Voglio dire: una volta c'erano persone che si guadagnavano da vivere producendo il ghiaccio, perché nessuno se lo poteva fabbricare da solo. Dal giorno in cui i frigoriferi sono entrati nelle case, è diventato anacronistico pensare di potersi guadagnare da vivere fabbricando ghiaccio, perché tutti hanno incominciato a produrlo per conto proprio.

Cosa dovevano fare i fabbricanti di ghiaccio? pretendere una legislazione che obbligasse la gente a comprarlo da loro, anche se in realtà ognuno se lo poteva produrre autonomamente, con il proprio frigorifero? o forse, piuttosto, adattare la professione a una realtà mutata? magari mettendosi a produrre ghiaccioli e granite?

Allora: ha senso che i fotografi facciano battaglie contro la possibilità di procurarsi fototessere a poco o niente? o che se la prendano perché la gente si fa i ritratti da sola con l'iphone? Di più:  c'è una logica nel rendere sempre meno dignitoso il proprio lavoro, tanto da metterlo in competizione con macchinette o impiegati dell'anagrafe? Erano fotografi di serie B quei professionisti di provincia senza nome che, nel passato, rovinandosi gli occhi al fotoritocco con la lente e la matita, producevano fototessere e ritratti impeccabili che ci hanno trasmesso i volti e i sapori della loro epoca?



1940



Io faccio un lavoro differente, per fortuna e purtroppo. 
Per fortuna perché è affascinante e gratificante; perché ho la possibilità di esprimermi, qualche volta, attraverso le mie immagini; in realtà, soprattutto, perché mi consente di fotografare belle gnocche facendomi persino pagare ( chi poteva immaginarlo quando avevo  15 anni? ). 
Purtroppo, perché devo sovente rincorrere i clienti, sopportarne le paturnie, a volte patteggiare la dignità. Purtroppo, qualche volta, perché devo rincorrere anche i pagamenti mentre a voi, fotografi di fototessere che vi sentite di serie B, i soldi ve li mettono sul banco quando ritirano la busta ( speriamo in cambio di uno scontrino ). Eppure, anche se potrebbe non interessarmi, mi fanno incazzare quelli che vengono ai miei workshop e dicono un po' di soppiatto che fanno matrimoni e fototessere in paese, quasi si sentissero dei poveretti sfortunati.

Ma incominciate ( o rimettetevi ) a fare fototessere ( o matrimoni ) per bene; perché è possibile, e sarebbe un lavoro di grande dignità. Fate fototessere che siano dei ritratti, non fotogrammi di una macchinetta sotto due ombrellini. E le vostre fototessere fatele pagare 120 euro, non 5. 
( 120 e non 100, perché se no sembra che arrotondate in eccesso ).

Nessuno è disposto a pagare 120 euro per la foto della carta d'identità? Per forza! Se gli date una foto di merda come quella del supermercato, nessuno vi pagherà mai 1 centesimo in più che per quella. Anzi: a parità di costo, preferiranno farsele con la macchinetta, perché almeno non avranno da interagire con un pirla che, oltre a fargli delle foto di merda, si atteggia anche a artista della fotografia.

Ma se voi farete dei ritratti, invece che inutili fotogrammi, e insieme alle 4 fototessere consegnerete al cliente anche una foto formato A4, stampata su carta fine art, consegnata in una bella cartellina fighetta da aprire con i guanti di cotone bianco, forse qualcuno che apprezza lo troverete; qualcuno che ci sta a mettere lì il corrispondente di 4 serate in pizzeria per avere, non 4 fototessere scrause, ma un vero e proprio ritratto che lui da solo non è in grado di farsi. Un'immagine che resterà nella storia della sua vita e della sua famiglia, come lo sono le foto dei nostri nonni che tutti abbiamo nel cassetto, scattate da fotografi di provincia molto più umili, ma anche molto più dignitosi di noi. E l'anno dopo magari torneranno per farsi dei ritratti veri e propri da 800 euro, rinunciando a una vacanza a Praga per una cosa che resta.

O no?

Non ci verrà nessuno a fare le fototessere da voi? Ma fare 1 "fototessera" da 120 euro, equivale a farne 24 da 5 euro. Potrete permettervi di avere 23 clienti in meno. O non so fare i conti? Ognuno decide se essere un fotografo di serie B o un fabbricante di comunicazione e di senso, sia che lavori per la moda oppure per la zia Caterina. Se fare un lavoro che ha una dignità, o sputtanarsi al mercato delle vacche. Non ci sono scuse. E' una questione di scelte.

E' una provocazione la mia, non mi nascondo. 
Ma non sto scherzando: annuncio che io, Davide Cerati, da domani faccio le fototessere: per 120 euro, 4 fototessere e una stampa A4  su carta fine art.




Ph. Carlo Carletti


domenica 7 ottobre 2012

Francesco Cito



Francesco Cito: niente di che. 

L'ho conosciuto questa estate in Sardegna, dove abbiamo tenuto un Campus insieme a Berengo Gardin e Benedusi. Al momento mi sono sentito in imbarazzo con le mie foto di modelle messe a fianco delle sue foto di guerra. Poi però ho capito che io sono un vero fotografo, lui invece un semplice scattino. Perché i soggetti delle foto di Francesco Cito sono fotogenici senza bisogno di trucco e parrucco. Troppo facile così. Quando fotografo io, le modelle bisogna prepararle, truccarle, pettinarle, vestirle, illuminarle, dirigerle. Ancora prima, bisogna saperle scegliere giuste, che abbiano la necessaria esperienza, la presenza scenica, l'immagine adeguata al progetto in corso. Poi magari quel giorno hanno le palle girate e allora bisogna in qualche modo conquistarle, consolarle, convincerle; sopportarle anche, a volte. Francesco invece i suoi soggetti li deve soltanto rincorrere; gli basta essere lì e scattare. Sono capaci tutti così! Più che talento di fotografo, servono le dritte giuste, conoscenze che ti portino sul campo in relativa sicurezza, capacità di viaggiatore. Ma una volta lì, chiunque sarebbe capace di fare clic e portare a casa immagini incredibili, perché eccezionale è il soggetto, non il fotografo.

Come dire.

Come dire che Pippo Inzaghi era un giocatore dell'oratorio, perché la sua forza era solo quella di essere lì nell'area piccola, quando la palla gli cadeva addosso, e spingerla in rete. Ma lui intanto, lì, c'era, e la metteva dentro ( sono Interista, per cui mi costa scriverlo, ma è così ).

Io non sono un cultore della foto di "reportage della tragedia". Per lo meno, non lo sono dell'uso gratuito che spesso se ne fa. Ho la sensazione che molti facciano opera di sciacallaggio sulle disgrazie altrui. La tragedia è davvero fotogenica. La sua rappresentazione è ampiamente sfruttata per generare morboso stupore fine a se stesso. Sembra quasi che la fotografia sia "vera fotografia" soltanto quando rappresenta il brutto e il marcio.

Invece.

Invece la fotografia di Francesco non è mai quella di uno spettatore disinteressato e fuori dal gioco, o al di sopra di esso. Francesco è sul campo, come un guerriero, come un protagonista della tragedia stessa. Una tigre, ferita lei stessa delle ferite della sua preda; sporca della stessa terra e dello stesso sangue delle sue immagini. Offeso lui, come i suoi soggetti, dall'oscenità della storia. E le sue foto sono, paradossalmente, non tutte ma molte, glamour tanto quanto lo sono quelle delle mie modelle. Glamour nel senso letterale di "affascinanti", perché ci fanno sentire dentro la battaglia, ci fanno innamorare di quelli uomini e di quelle donne; ci fanno disperare di saperle disperate.

Insomma.

Francesco è uno che a vederlo sembra un marinaio sulla prua di un veliero, sporco di salsedine e catrame; oppure, per contro, un ambulante che vende le magliette del Napoli fuori dallo stadio, tanto si presenta con semplicità, senza vezzi e umilmente. Poi apre la bocca, inizia a parlare, e ti accorgi che ha un mondo di storie da raccontarti che manco il capitano Achab… da ascoltare per ore come se ti raccontasse romanzi, e invece sono storie vere di guerra, di lurida mafia, di rancido sangue e vite frantumate. E lì in mezzo lui. Lui che si sente svenire se si fa un taglietto, che non riesce a dormire se si trova in un letto nuovo; lui che fa quasi tenerezza a sentirgli confessare questi piccoli disagi, ha vissuto dentro ( DENTRO ) situazioni così incredibili, tragedie così grandi, da esserne riuscito a raccontare l'essenza come soltanto un protagonista può fare. Di più: Francesco riesce, nelle sue fotografie, non solo a raccontare e sintetizzare quel giorno o quel momento, ma piuttosto quella storia intera. Questa è grandissima fotografia.

Francesco è uno che fa piacere avere come amico. Uno che dopo dieci minuti ti sembra di conoscere da sempre. Uno che non se la tira e avrebbe, invece, tutte le ragioni per tirarsela presentandosi come un Guru della fotografia; perché lo è.



Francesco Cito - autoritratto con mujiahiddin - 1980




Ph. Francesco Cito - Libano 1983



Ph. Francesco Cito - Libano 1984
 

Ph. Francesco Cito - Libano 1984


Ph. Francesco Cito


Ph. Francesco Cito - 1993 Bosnia


Ph. Francesco Cito - Palestina 1993 


Ph. Giancarlo Mecarelli


Ph. Ivo Saglietti






giovedì 30 agosto 2012

ERWIN BLUMENFELD


Erwin Blumenfeld
1897 – 1969


Ho visto gli originali esposti al Musée Nicéphore Niépce, a Chalon-sur-Saône, Francia.

mamma mia...






























Erwin Blumenfeld, self portrait, 1932




giovedì 28 giugno 2012

PORRETTA CITTA' DELLA FOTOGRAFIA


Domenica, 1 luglio, parte Porretta Città della Fotografia. 

Cos'è?

In 15 fotografi italiani, nei mesi scorsi, siamo stati invitati a ritrarre la gente di Porretta Terme, in provincia di Bologna. 

Ognuno di noi si è dedicato a un ambito specifico: io ho fotografato le persone che lavorano nel Municipio; Paolo Castiglioni i vigili del Fuoco, Roberto Rocchi i lavoratori delle Terme, Pino Ninfa quelli del Bottonificio Lenzi, e così altri in differenti luoghi di Porretta. 

Gianni Berengo Gardin, certamente il più grande tra noi tutti, si è dedicato ai lavoratori della Oerlykon ( ex Demm ). Toni Thorimbert fotograferà nei prossimi giorni, e anche le sue foto si aggiungeranno alle nostre. Porretta Città della Fotografia è infatti work in progress e si protrarrà fino a fine settembre, culminando con la stampa di un libro che raccoglierà tutte le immagini.

Così quella di domenica prossima, più che un'inaugurazione in pompa magna, sarà l'apertura di un percorso che vedrà nella presentazione del libro, a settembre, l'evento più eclatante. Nel frattempo, per tutta l'estate, le opere saranno esposte al pubblico in giro per Porretta, in varie locations.

Dietro a tutto ciò i motori sono quelli del mitico Mosè Franchi ( che io chiamo "il tessitore" della fotografia ) e Luciano Marchi, fotografo porrettano, che con l'appoggio e il patrocinio del comune hanno costruito un'altra "storia" di fotografia e amore per la gente.

Le  mie immagini saranno esposte al BAM, museo del comune ricavato dalle ex carceri, già a partire da domenica 1 luglio.

Da questo link potrete scaricare la locandina/invito:  








Articolo sul Corriere della Sera del 29-06-2012:







domenica 24 giugno 2012

senza età




io sono per le fotografie senza età





















ph. Peter Lindbergh


giovedì 14 giugno 2012

VINTACC


Non è che io voglia per forza essere controcorrente.

Piuttosto è una questione di insofferenza; un limite mio, insomma. Quando una cosa diventa molto facile, troppo diffusa, quasi inevitabile, allora mi viene a noia e fatico a sopportarla.

Forse dipende dal fatto che i miei genitori ( consapevolmente o meno, non lo so ) mi hanno abituato a non uniformarmi. Quando ero ragazzino tutti avevano la Saltafoss. Eri uno sfigato se non ce l'avevi. Anch'io, naturalmente, sognavo di avere la Saltafoss. I miei, dopo lungo trattare, me la comprarono: simile, ma di un'altra marca… allora l'accettai controvoglia, ma dev'essere che non ho ancora superato oggi, se non mi ricordo nemmeno come si chiamava la mia.  :-)




Più avanti, tutti avevano i Levi's; eri un pirla se non compravi i Levi's. 
I miei genitori cedettero, a modo loro,  solo in parte, per omofonia… Rica Lewis… azz!!!






Ci sono stati anni "che dovevi per forza" metterti le Superga; e io? le solite imitazioni che, diceva mia mamma, "costano meno e sono fatte meglio". Forse aveva ragione, perché poi ci sapeva guardare, ma io… diobono, volevo le Superga!

A quel tempo faticavo a mandare giù. Ero uno che, per non seguire il gruppo come una pecora, per non lasciarmi intruppare, avevo cose ( a detta loro ) più buone a prezzi più giusti rispetto a quelle in voga al momento, ma… gli altri quelle cose le avevano e io no!  Sempre. Ufff!


Eppure questo loro tenace atteggiamento, allora indigesto, mi ha abituato a guardare le cose senza lasciarmi condizionare troppo dalle mode; a vederle per quello che sono e per quello a cui servono, non per ciò a cui è facile aderire per sentirsi parte del branco.





Veniamo alla fotografia. 
Non so voi, ma a me il vintage in fotografia sta venendo profondamente a noia. Mi sto incominciando a rompere di tutte ste foto che scimmiottano gli anni '60 e '70. Spesso belle, per carità. Ne ho scattate e ne scatto anch'io. Ma quando tutti si mettono a fare la stessa cosa, non per una scelta di comunicazione, ma perché è figo fare così, a me viene l'orticaria e mi vien voglia di fare l'opposto. C'è stato un momento, tanti anni fa, nel quale non si poteva scattare senza un filtro flou davanti all'ottica. L'ho fatto anch'io, prima perché usato con parsimonia mi piaceva, poi perché costretto a usarlo dai clienti. Ma arrivati a quel punto io sentii nella pancia il desiderio irrefrenabile di ottiche incise, luci crude, estrema nitidezza. Ora è lo stesso con il vintage sempre e ovunque.







Oggi la tecnologia ci consente di realizzare immagini perfette, incise, calibrate; anche troppo pulite a volte. Soprattutto, la fotografia è entrata nel mondo della matematica: i pixel sono entità numeriche e, in quanto tali, poco legati alla casualità. "Numerique" chiamano il digitale i francesi. E' normale quindi che si senta il bisogno di sporcare le proprie immagini per simulare un non so che di imprevedibile e incontrollabile, come era per la pellicola. Non mi stupisce il fatto che si abbia nostalgia di quel magico margine di indefinibile che era proprio dell'argento e della chimica.



Vintacc Gegé  (c) Davide Cerati



Può essere piacevole ripercorrere e ricostruire quelle atmosfere, se ciò è pertinente con le scelte di comunicazione o se è un gioco. Ma ora pare che sia da sfigati non fare foto vintage, come lo fu avere la Saltasù invece che la Saltafoss. Sembra che un fotografo, per sentirsi sulla cresta dell'onda, debba per forza scimmiottare le fotoricordo degli anni '70 sempre, ogni giorno e in qualsiasi situazione; se no si sente un pirla come quello che non aveva i Levi's. E' diventato così facile simulare quei gusti e quelle atmosfere ( basta una banalissima App dell'iPhone ), che il gioco ha perso per me gran parte del suo fascino.

Insomma: io continuerò a scattare immagini vintage se dentro un particolare progetto ciò a un senso in funzione della comunicazione. Lo faccio ora come lo facevo già 20 anni fa ( e allora sembrava di fare immagini controcorrente ). Ma oggi, sarà forse che comincio a essere vintage anch'io, sento nella pancia un gran desiderio di cambiare aria e uscire dal branco.




lunedì 21 maggio 2012

non bastano i terremoti


Avevo già in programma di scrivere nei prossimi giorni questo post. 
Sono in treno, torno da un servizio fotografico a Ischia e sto uscendo solo ora, piano piano, da una bolla di privilegiato isolamento dal mondo nella quale sono rimasto rintanato in questi tre giorni, cullato da gente, situazioni e luoghi meravigliosi. Incomincio solo ora a sapere qualcosa in più riguardo al terremoto di questa notte in Emilia; e in Emilia a Cento, provincia di Ferrara. Non so ancora esattamente cosa sia successo lì, non ho ancora visto un telegiornale, ne sentito un giornale radio. Ma è proprio d’una storia di Cento che volevo scrivere in questi giorni e approfitto delle ore di treno per farlo.


Ho scattato una fotografia per la campagna pubblicitaria Porada in un bar storico di Cento: il Caffé Italia. L’ho trovato e scelto come location dopo un lungo girovagare per tutta l’Emilia, in mezzo alla nebbia e il ghiaccio, quest’inverno. Poi ho proposto a Roberto, il proprietario, di realizzare lì questa fotografia; l’immagine di un luogo tipicamente italiano, nel quale ambientare gli arredi del mio cliente. Lui ha subito accettato e a febbraio siamo partiti con la produzione e realizzato l’immagine.


Il bar è davvero un pezzo di storia: aperto negli anni venti, è stato a lungo il più importante centro di intrattenimento della zona. C’era il bar, l’enorme sala bigliardi, il grande cortile con le bocce. Sopra, un teatrino di varietà. Più in alto ancora, una piccola pensione dove all’epoca dormivano, e non solo, le ballerine del teatro. All’interno, appesi ai lati delle vetrine, enormi pavoni imbalsamati. Nel bar ci hanno realizzato scene di sei film; ci ha girato Pupi Avati e ci hanno recitato, tra gli altri, Ugo Tognazzi, Paolo Villaggio, Philip Noiret;   io so quel poco che ricordo dei racconti di Roberto e quindi potrei essere impreciso e sicuramente incompleto.

Però, certo, un pezzo di storia da conservare gelosamente, continuando a farlo vivere come faceva Roberto.
Così sarebbe in qualsiasi paese civile. Così sarebbe in qualsiasi paese “furbo”.




Che c’entra questa storia con il terremoto di questa notte? Nulla. Anzi, come anticipato, so ancora poco di quanto successo. Probabilmente, in questo momento, i centesi avranno ben altri problemi da risolvere che questo. C’entra però con la distruzione della nostra storia e della nostra cultura che si opera ogni giorno dappertutto in Italia; non per colpa dei terremoti, o non solo. Piuttosto per l’arroganza, l’ignoranza, la superficialità; in fondo, e tutto sommato, per colpa di una visione miope della realtà e del futuro.



Il Caffé Italia ha chiuso a fine aprile. Roberto, dopo aver puntato i piedi e resistito a lungo, ha dovuto cedere e chiudere perché la proprietà dello stabile ( una banca ) ha deciso che quel pezzo di storia non valeva più la pena di essere tenuto in vita. Ristruttureranno l’immobile e al posto del Caffé Italia ci metteranno un franchising di mutande o un fast-food, o un negozio di telefonia, chissà.

Come spesso succede in Italia, con superficialità e scarsa lungimiranza, buttiamo nella pattumiera pezzi di cultura e di storia come se fossero carte di caramella. Abbiamo vissuto migliaia di anni grazie al valore della nostra cultura e ora non riusciamo più a considerare quanto questa potrebbe continuare a farci vivere se fossimo capaci di conservarla e alimentarla. Cioè: conservare le cose che hanno un valore non è una spesa o uno spreco; è un investimento.
Valorizzarle, come abbiamo cercato di fare in questi scatti Porada, è un investimento per il futuro, oltre che un dovere verso il passato.

Roberto


Comunque sia, il Caffé Italia non ci sarà più e resterà nella memoria e nel cuore soltanto di chi ci ha mangiato, bevuto, giocato, vissuto nel corso della sua storia. E nel mio che ne ha sfiorato fugacemente la vita, un attimo prima che finisse. Di questo sono onorato e contento.
Di tutto il resto no.




ADV Porada



domenica 8 aprile 2012

Mostra personale di Davide Cerati

Sabato 14 aprile 2012 inauguro una mia piccola mostra a Cantù (CO).

Una cosa alla buona, senza grandi pretese, ma tra amici, e per questo piacevolmente intima.
Pane, salame, la fisarmonica del Pietro, quattro chiacchiere e qualche mia foto appesa ai muri. Tutto qui.

Voglio solo spendere due parole sullo spazio laboratorio libri "La Cornice".
Nato ( e rimasto ) come il laboratorio di Tommaso Falzone, abile corniciaio canturino, è in realtà diventato negli anni un crocevia, un luogo d'incontro, una galleria, uno spazio di scambio e persino di relax per gli artisti e gli amanti dell'arte della zona e non solo. Insieme a Giampaolo Mascheroni, ( eclectico artista, poeta, bibliotecario, cineasta, critico d'arte, gigione, curatore ) Tommaso ha costruito, senza forzature, calcoli economici o progetti prestabiliti, con molta naturalezza e direi quasi fisiologicamente, un piccolo luogo d'incontro dove fare quattro chiacchiere, vedere opere, trovare libri, incontrare personaggi a volte bizzarri e sempre interessanti. Ma per davvero, però; non tanto per dire, non per cercare di dare un'aria meno commerciale a una galleria, non per sentirsi un po' bohemienne in mezzo alla Brianza profonda e cinica; prima è nato il laboratorio, poi vi si sono incrociati gli artisti e gli amici, e poi, naturalmente, è partita l'idea di farci mostre di pittori, scultori, scrittori, illustratori. Senza pretese, come dicevo, senza metterla giù dura, ma da Tommaso, sorseggiando un the o portando una foto da incorniciare, si può incrociare un sacco di arte, di cultura e di vita. Date un occhio al blog de "La Cornice" e ne avrete la conferma.

Per questo una mostra senza pretese, ma per me molto sentita.



DAVIDE CERATI
fotografo
mostra personale

Inaugurazione Sabato 14 aprile 2012 alle ore 18.00

Spazio Laboratorio La Cornice
via per Alzate 9, Cantù (CO) Italy - tel +39 031 700571

dal 14 aprile al 6 maggio 2012
orari:  martedì-sabato 9.00-12.15  / 15.00-19.15


http://spaziolaboratoriolacornice.blogspot.it/









sabato 4 febbraio 2012

CIT AZIONI

Ci sono argomenti intorno ai quali si ragiona per anni; poi li si dimentica o, meglio, passano in secondo piano rispetto a urgenze più pressanti cui rendere conto.
Eppure quello della citazione dell’autore, sulle fotografie, è un argomento che rimane attuale anche in un mondo nel quale il consumo di immagini è diventato frenetico, a volte isterico. Un articolo del Sole 24 Ore ( linkato in fondo a questo post ) mi ha riportato alla mente domande alle quali, lo confesso, avevo smesso di cercare una risposta.

Mi chiedo ( mi sono sempre chiesto ): perché?

Sto parlando della mancata citazione dell'autore di fotografie pubblicate a supporto di articoli, campagne pubblicitarie, siti web, ecc..

Perché così spesso ci negano questo riconoscimento al nostro lavoro?
Per quale motivo non ci concedono un diritto che, in fondo, non costa nulla? Scrivere in piccolino, sul margine dell’immagine, o in una didascalia, “ foto di ” non costa. Non rovina la lettura dell’immagine e non toglie nulla al redattore dell’articolo o al marchio oggetto della pubblicità. Vale, l'assenza di costo, per un nome di poco conto nel panorama fotografico e, se la foto della mia campagna pubblicitaria fosse di Avedon, sarei pure tentato di scriverlo in caratteri giganteschi… poi l’amore per le sue foto mi eviterebbe, per fortuna, di perpetrare questo scempio  :-)




Eppure in molta immagine di cronaca, ma anche in tanta pubblicità, avere il nome associato alla propria opera sembra quasi un favore da elemosinare.

Nei redazionali non è così; l’autore delle fotografie è citato sempre. Certo, in questo caso la citazione è, di fatto, oggetto di scambio: io ti cito, tu ne trai visibilità e, in cambio, tu accetti il compenso risicato che ti offro. Ma nella pubblicità questo meccanismo non esiste e non avrebbe senso, visti i budget sul campo.


Attenzione: non sto scrivendo questo post per dare delle risposte; proprio non me lo spiego, non riesco a intuirne le motivazioni.

Io potrei anche concepire la pigrizia di qualche redattore, o la disattenzione di un impaginatore, ma stiamo in realtà parlando di mezzi nei quali, di solito, nulla è lasciato al caso. Soprattutto, la frequenza di questa prassi mi convince che ci sia dietro un ragionamento razionale e assolutamente non casuale; ma non riesco a scovarlo.

Io non voglio parlare della foto di cronaca o del reportage perché non è il mio settore. Ma la pubblicità un po’ la conosco.

Potrei pensare che ai clienti e alle agenzie di pubblicità non importi nulla di citare un fotografo sconosciuto o anche solo poco noto e quindi, con molta poca sensibilità, se ne freghino di farlo. Non mi piacerebbe, lo riterrei un sopruso, ma potrebbe essere una spiegazione. Però questa prassi non riguarda soltanto i comuni mortali come me; ne sono vittima anche grandissimi fotografi che, teoricamente, dovrebbe essere un onore citare come autori delle proprie campagne. Eppure molto spesso funziona così: guardate le pubblicità dei grandi marchi e vedrete che soltanto in rarissimi casi ne è citato l’autore.

Allora: se paghi e strapaghi un fotografo di fama internazionale per una pubblicità di Levi’s, di Lancôme, di Chanel, perché mai non lo citi? Perché non te ne fai vanto? Ti fa schifo far sapere a tutti che hai messo la tua immagine nelle mani di un grande fotografo?

Hai paura che la sua fama oscuri il tuo marchio? Temi che alimentare la notorietà dei fotografi possa portare a un aumento dei prezzi delle fotografie? Pensi che mantenere un alone di anonimato intorno alla fotografia ti garantisca maggiore potere contrattuale e progettuale? Non vuoi riconoscere una gratificazione a chi pensi debba restare un tuo “servitore”, per quanto di alto rango?

Spero non sia così, perché mi parrebbero motivazioni davvero di basso profilo.

Io, se mi facessi progettare la casa da Renzo Piano, lo scriverei a fuoco su una targa inglobata nel cemento armato, se non altro per ricordarmi di quanto è valsa la pena spendere tutti quei soldi. Potrei quasi essere tentato di scrivere che la mia casa l’ha progettata Renzo Piano anche se non è vero, per fare il figo davanti a alcuni conoscenti altolocati e supponenti.




E se il fotografo, invece, è uno sconosciuto, o comunque uno dei tanti, cosa ti costa scrivere il nomino sotto la sua fotografia?